Quando ero junior designer, il mio creative director mi chiese di disegnare una mascotte con l’istruzione, molto poco entusiasmante, di riordinare le forme del famoso logo delle Olimpiadi del 2012. Non avendo altra scelta che accettare il compito assegnatomi, mi ci buttai con energie illimitate e in parte dovute al panico che deriva dall’aver bisogno di impressionare positivamente “le alte sfere”, confidando che il mio superiore mi avrebbe guidato nella giusta direzione.
Tre settimane dopo ero sconvolta: avevo sulle mie spalle l’intero peso del nostro completo e tremendo fallimento della conquista del pitch.
Sarebbe facile imputare tale sconfitta all’inesperienza, dopo tutto. Avevo completamente mancato il brief e tutte le altre proposte erano migliori, ma quando ci penso un po’ più attentamente, vedo che il vero problema era di mancanza di accesso alle informazioni: desideravo ardentemente comprendere tutti i dettagli dell’intero progetto, ma invece ero stata privata di interi frammenti del progetto e avevo cercato di rattoppare le parti mancanti per averne una visione completa. Era come cercare di mettere insieme un puzzle mentre lo si osserva dal buco della serratura.
Molte organizzazioni, messe di fronte alla sfida di tenere insieme più progetti, dipartimenti e competenze, ripiegano sulla combinazione tradizionale di gerarchia, metodo e struttura. Ciò può alimentare una cultura di autocompiacimento, portando a risultati che sono limitati nella loro visione, membri del team che si sentono costretti e sottovalutati e una forza lavoro che opera sotto una pressione incessante per fare bene le cose o altrimenti doversene andare.
Quando ripenso alla mia sfortunata esperienza Olimpica, capisco che non avevo il quadro generale: non potevo mettere sul tavolo le mie idee, non avevo il potere di creare un cambiamento. Ero subordinata: la mia relazione con i miei superiori era distante e gli aspetti più integrali del processo di design (ricerca, esplorazione e discussione) erano completamente assenti. Non c’era collaborazione di nessun tipo. Non stupisce che io abbia perso sia il pitch sia la trama!
Non deve essere così. Quando co-fondai lo studio creativo Gravita, imparai cos’è davvero la collaborazione: molte menti che lavorano assieme per risolvere problemi. Facendo così, le nostre capacità complementari sono libere di fondersi in modi sorprendenti: non vincolati, siamo meglio equipaggiati per realizzare soluzioni creative.
Questo tipo di cultura collaborativa è possibile, sia che siate freelancer o che lavoriate in un’agenzia o all’interno di un’azienda. Dovete solo fare tre cose:
- rimuovere le supposizioni
- enfatizzare i ruoli all’interno del progetto invece dei nomi delle professioni
- creare un ambiente che supporti le nuove idee
Ecco come abbiamo realizzato ciascuna di queste cose in Gravita.
Supposizioni: il cianuro della collaborazione#section1
Quando fondai Gravita all’inizio con due altri designer scoprimmo che c’era una vera sinergia tra noi. Il feedback era eccezionale. Ci eravamo imbattuti in una dinamica che funzionava anche nei nostri primissimi progetti.
Tuttavia, il percorso verso un modo di lavorare libero da inibizioni è stato tutt’altro che semplice perché io cominciai a fare delle supposizioni sul mio valore nel team. Comparavo le mie skill con le loro e, decidendo che ero inadeguata, supponevo che le mie idee non fossero altrettanto buone. La mia vita in agenzia mi aveva convinto che i miei contributi non avessero valore.
Le miei insicurezze crearono delle barriere: avevo il terrore di mostrare il mio lavoro, preoccupata di fallire. Trovavo mille scuse per non contribuire. Questo creò frustrazione e tensione nel nostro spazio di lavoro e impedì il progresso del mio primo progetto.
L’unico modo per uscire da questo vicolo cieco debilitante era esporre le mie insicurezze e discuterne. Non appena fui sufficientemente coraggiosa da aprirmi con i miei colleghi riguardo ai miei sentimenti ed aver accettato un processo graduale di supporto e feedback positivo, fummo in grado di procedere.
Nel nostro progetto successivo, cominciammo a parlare apertamente di come ci sentivamo. Ero stupita nello scoprire che non ero l’unica ad essere in apprensione: poter mettere tutti le nostre carte sul tavolo fu catartico. Ci sedemmo insieme come una squadra e trovammo in che modo ciascuno di noi poteva contribuire, quello di cui eravamo preoccupati e in che modo potevamo lavorare assieme per aggirare i potenziali problemi.
La collaborazione offre un veicolo attraverso il quale le assunzioni personali possono cambiare. Non tenetevi dentro i vostri sentimenti e non abbiate paura di fare domande che pensiate gli altri riterranno stupide. Dare voce alle preoccupazioni che avete riguardo a voi stessi apre un dialogo continuo, uno che permette di identificare i vostri punti di forza, incoraggiare l’approvazione e permettere alla vostra fiducia di crescere.
Dare priorità ai ruoli piuttosto che ai titoli#section2
I job title possono essere utili ma creano anche dei confini. Possono soffocare interi progetti e frenare lo sviluppo personale. Sono etichette e proprio come quelle sulla scatoletta di una zuppa, possono creare una chiara aspettativa di quello che c’è dentro: se emerge qualcosa d’altro, è una brutta sorpresa.
Ebbi il primo sospetto che non dovesse essere così quando stavo lavorando per un grande ente benefico intrappolata nel titolo di “web master”. Il management notò quanto questo fosse limitante per me: mi avevano dato il via libera per assumermi delle nuove responsabilità che mi permettevano di espandere le mie attività. Realizzai che era perfettamente fattibile che le aziende adottassero questo tipo di pensiero aperto e flessibile.
Ho scoperto che questo modo di pensare funziona anche in Gravita. Riconosciamo che è il ruolo, non l’etichetta, che dovrebbe essere al centro del lavoro. Noi non abbiamo alcun titolo lavorativo, al contrario, abbiamo optato per dei ruoli a rotazione. Ci sediamo con un caffè e vediamo chi vuole fare cosa in un nuovo progetto, che sia il project manager, l’architetto dell’informazione, l’iconografo o qualsiasi altra cosa.
Rimuovere i titoli permanenti è liberatorio. Improvvisamente, come un corridore su lunghe distanze, si è solo e sempre in competizione con sé stessi. Diventa più auto-miglioramento e meno scalata della graduatoria. Siete liberi di portare quello che volete al tavolo e di crescere come designer.
La fortuna aiuta le menti connesse#section3
Le idee andrebbero sempre ascoltate, indipendentemente dalla loro forma o da quanto siano complete. Gli istinti e le proto-idee, neuroni che si attivano con altri neuroni, hanno bisogno di un ambiente libero dove potersi mischiare, entrare in collisione e svilupparsi, per produrre alla fine qualcosa di più grande della somma delle loro parti. Dopotutto, come spiega Steven Johnson nel suo talk “Where Good Ideas Come From”, “la fortuna aiuta le menti connesse”: la connessione e il flusso tra le persone crea idee più forti.
Riuscire a entrare nel flusso può essere difficile ma ne vale la pena. Mihaly Csikszentmihalyi definisce il flusso come “lo stato interiore della concentrazione energica che caratterizza la mente quando è maggiormente produttiva”. Guardiamo oltre gli spazi separati che abitiamo come corpi individuali e ci riuniamo come menti. È una forma di lavoro intenso e unito in cui le persone lasciano andare le proprie inibizioni e si vedono come fondamentalmente interconnessi su un progetto.
Recentemente, stavamo valutando dei concetti di design per un progetto riguardante l’assistenza sanitaria. Semplicemente, non stava funzionando e nessuno di noi individualmente aveva capito cosa non andava. Insieme, cominciammo a passarci avanti e indietro delle idee, fino a che qualcuno pronunciò le parole “meno freddo”. Improvvisamente, avevamo scoperto quello di cui avevamo bisogno: un carattere tipografico nuovo e più gentile, una palette più morbida e confortevole. Abbiamo avuto bisogno di tutti noi, di lavorare insieme in maniera connessa, per centrare la soluzione.
Il flusso da mente a mente in questo modo permette di alimentare un’idea in uno spazio mentale condiviso. Il pensiero collaborativo migliora la capacità naturale del cervello di creare nuovi collegamenti, che a loro volta fortificano l’idea iniziale. Non c’è posto per l’ego: è importante che si sia aperti e sia dia il benvenuto ai flussi di pensiero degli altri.
Un nuovo modo di pensare#section4
Collaborazione vuol dire radunare menti e capacità diverse in maniera tale da non fare supposizioni riguardo a quello in cui qualcuno eccelle. Significa essere dispensati da ruoli limitanti ed introdurre fluidità di pensiero ed attività in un team di design. Soprattutto, significa mettere l’interconnessione al centro di ogni azione.
La collaborazione è dunque l’elusivo Santo Graal del lavoro? Sicuramente è quello a cui aspirano molte persone e gli piace pensare di farlo anche quando c’è una gran varietà di forma. Quello che so è che cambiando il modo in cui penso, ho contribuito a creare uno spazio sicuro e libero dalle assunzioni con una distribuzione omogenea di autorità che permette alle idee di scorrere liberamente.
La cultura collaborativa ci aiuta a scoprire soluzioni uniche e a ridefinire noi stessi continuamente. Progettare per la comunità online significa operare in un ambiente in continuo cambiamento, in cui la chiave è l’adattabilità per stare al passo con le nuove tecnologie e i nuovi scenari.
Una cultura collaborativa può spingerci in spazi in cui le pratiche convenzionali hanno paura ad avventurarsi. Tutto può essere messo in discussione, si ascoltano le idee e le persone sentono di avere il potere di creare un vero cambiamento.
Infine, sento di vedere il quadro completo.
Illustrazioni: {carlok}
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